Lavorare in Tecnocasa. Sfruttamento e disciplina degli agenti immobiliari

Che vuol dire lavorare per Tecnocasa, o più in generale nel mondo delle agenzie immobiliari? Chi ci lavora? E quanto guadagna? E a che prezzo, con che ritmi? E come funzionano le agenzie, quali pressioni si esercitano sul lavoratore? Come poter mettere fine alla dilagante precarizzazione e allo sfruttamento che vigono nelle agenzie?

Ecco alcune domande a cui proviamo a dare risposta in questo articolo, scritto da un giovane lavoratore che da anni è impiegato nel settore. Un settore che, come denunciavamo nel nostro libro “Dove sono i nostri” , è investito da altissimi tassi di sfruttamento, ma che non riesce a produrre nessun conflitto collettivo a causa di meccanismi di ricatto economico, di individualizzazione del lavoratore, di gestione “totale” della sua vita e addirittura di sua colpevolizzazione se non riesce a produrre risultati, a raggiungere gli obbiettivi posti dai capi…

Ma perché è interessante ricostruire ciò che accade dietro la facciata sorridente delle agenzie immobiliari? Perché siamo convinti che, anche se in questo microcosmo non si sono date finora lotte di nessun tipo, molti di questi lavoratori, spesso anche giovani, siano stanchi, stressati e – anche se spesso non riescono a individuare i responsabili del loro malessere, e vivono nel mito del “self made man” – possano chiedere di più dalla loro vita, e possano magari unirsi ad altri soggetti con cui costruire una società più libera ed equa. D’altronde i “nostri”, ovvero i proletari, lo abbiamo detto più volte, non sono solo nei campi, nelle fabbriche, nelle officine, nei magazzini, nei trasporti o nel facchinaggio, alla cassa di una grande distribuzione, in un call center... ma sono messi a lavoro nei posti più diversi. Comporre e dare unità e coscienza a ciò che la controparte scompone e oppone: questo è il nostro compito politico.

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Occupazioni potenzialmente ad alta retribuzione ma estremamente precarie.
In linea di massima, questa è la realtà lavorativa nelle agenzie immobiliari per i collaboratori, quelle figure che svolgono il grosso del lavoro senza però essere né titolari dell’attività né impiegate in mansioni di segreteria. Professionalmente, i collaboratori si inseriscono tra il datore di lavoro, il quale deve gestire – ma a fronte di elevati guadagni – il cosiddetto “rischio di impresa” tipico dell’imprenditore, e l’impiegato amministrativo che svolge mansioni di segreteria (gestione contabile di base, appuntamenti etc) e che percepisce uno stipendio, sicuramente non elevatissimo, ma in genere in linea con i suoi omologhi nelle altre realtà aziendali, e soprattutto assunto con contratti a tempo indeterminato, con tutte le tutele che esso per fortuna ancora comporta.

Dunque, a livello generale, si può dire che un’agenzia sia di fatto una micro-impresa con 2 figure cardine: titolare (una o più persone) e impiegati amministrativi (una o più persone, generalmente di sesso femminile). Ma tra queste si muovono, per periodi di tempo più o meno lunghi, i “venditori” o “funzionari”, che svolgono in realtà tutto il lavoro di ricerca, acquisizione, vendita degli immobili. E lo svolgono in un regime lavorativo estremamente precario, subordinato nonostante la figura da libero professionista (quasi sempre inquadrato come “partite IVA”) e, a seconda delle fasi di mercato, significativamente retribuito o retribuito quasi per nulla.

Oltre la volatilità dell’impiego e all’aleatorietà dei guadagni, bisogna infatti considerare che a carico del collaboratore vanno i costi relativi alla sua gestione fiscale (ovvero spese di commercialista, iscrizione annuale alla Camera di Commercio, tasse, versamento IVA, contributi INPS…), per cui, quando si parla di retribuzione, questa è da intendersi lorda, non al netto degli oneri di cui prima, che incidono in percentuale variabile sul guadagno finale.

Il rapporto tra collaboratore e titolare non è poi gestito da alcun contratto, ma di fatto ha natura di dipendenza, senza però tutele o vincoli per entrambe le parti: in cambio di una percentuale sulle provvigioni, il lavoratore accetta implicitamente la natura estremamente precaria del rapporto, ovvero, nel caso, la sua cessazione immediata, immotivata, senza ammortizzatori sociali a “coprire” la perdita dell’impiego. Questa situazione, in un contesto di mercato espansivo, cioè quando l’economia del mattone “tirava”, non era troppo problematica; oggi, invece, si rivela molto complicata e rende ricattabile la posizione del collaboratore.

Guardiamo ora al caso specifico delle agenzie affiliate a Tecnocasa, cioè un esempio tra i più estremi a causa dell’impostazione e dei costi che comporta l’affiliazione a questo franchising immobiliare. La ricerca del personale, tendenzialmente, si concentra su ragazzi molto giovani (19-23 anni), non laureati, che hanno bisogno di lavorare, spesso alla loro prima esperienza lavorativa o comunque preceduta da occupazioni non significative, cioè persone deboli rispetto al mercato del lavoro e quindi più disposte ad accettare situazioni di compromesso molto pesanti pur di avere un impiego.

Le promesse ai primi incontri sono allettanti: provvigioni e guadagni molto elevati; possibilità di carriera all’interno del franchising o addirittura prospettive imprenditoriali come futuro affiliato nel giro di pochi anni; ruoli di responsabilità e contatto con le persone; impiego già dall’inizio importante e obbligo, conseguente, di eleganza lavorativa (la famosa: “giacca e cravatta”)… Per poter ricevere i compensi è necessario emettere fatture al titolare e di conseguenza aprire una partita IVA con tutte le particolarità e costi di cui si diceva sopra. In cambio, viene pagato dall’agenzia al collaboratore un “fisso mensile” per i primi 6 mesi, ovvero quelli di inserimento, che si aggira al Nord sui 1000€ + il 10% sulle provvigioni incassate dal collaboratore (le cifre sono tutte al lordo di costi e tasse), ma che al Sud tocca cifre davvero irrisorie (abbiamo conosciuto casi in Tecnocasa di 6-700€ di fisso e il resto dello stipendio a provvigione, mentre in altre agenzie si scende fino alla ridicola cifra di 300€ di fisso).
In ogni caso dopo i primi 6 mesi, avendo valutato che il collaboratore ha ormai creato la sua rete di contatti, il fisso viene tolto e viene riconosciuta una quota del 20% sul totale incassato.

Ovviamente la ripartizione del lavoro in Tecnocasa è tutta a carico del collaboratore stesso,ovvero: ricerca degli immobili in vendita o in affitto (ruolo che nella maggior parte delle altre agenzie immobiliari viene svolto da una persona a parte, anch’essa inquadrata con una formula fisso + provvigione, generalmente con contratto a chiamata o Co.Co.Co. ecc.), appuntamenti di visione degli immobili da immettere sul mercato, appuntamenti di vendita, trattative (generalmente questa parte si svolge in affiancamento con il titolare, almeno per buona parte del tempo, essendo il momento più sensibile, nel quale si è “in odore” di chiudere un affare)…
Il tutto rigorosamente impostato dall’alto, con scadenze e obiettivi ben precisi e molto pressanti: ogni giorno bisogna fare 20-25 appuntamenti porta a porta, distribuendo la rivista pubblicitaria di Tecnocasa e 50-60 telefonate di telemarketing per censire la popolazione di una via e ricavare informazioni sugli immobili, per un totale quotidiano di almeno 3; dalle quali – statisticamente, ogni mese, si ottengono solo 4 incarichi in esclusiva di vendita al mese e quindi 1,5/2 vendite mensili per collaboratore. Tradotto in termini economici, calcolando la provvigione media del 3% da venditore e acquirente (6%), significa ca. 7000€ ad affare, cioè 700€ (o 1400€) a vendita ad agente, sempre al lordo delle spese, di media, per quello che riguarda la mia personale esperienza di una media città del Nord Italia, che, tuttavia, al di là di poche differenze, resta sostanzialmente affine – se non migliore – del resto del Paese.

Ovviamente, gli obiettivi sono molto alti, non irraggiungibili, ma molto difficili. Questo fa sì che il collaboratore viva quotidianamente con la paura di non raggiungerli e di perdere il posto, conseguenza implicita nel mancato raggiungimento dell’obiettivo. In realtà, non è sicuramente immediata l’espulsione, ma il contesto crea una pressione interiore che porta, al momento opportuno, il collaboratore ad auto-espellersi, non avendo merce di scambio nei confronti del titolare per mantenere il posto e venendosi a creare un clima di tensione non più sopportabile.

La labilità della posizione del collaboratore è estrema: o raggiunge il risultato economico a tutto vantaggio della struttura o viene “espulso”, senza, realmente, alcuna possibilità di tutele o diritti di sorta. Il tutto, poi, contestualizzato all’interno di ritmi lavorativi del tutto deregolamentati e selvaggi: anche 10 ore al giorno da lunedì a venerdì, e il sabato, se non altrettanto, poco meno. Questa tensione lavorativa viene esaltata e “premiata” dall’azienda, in convention periodiche più o meno grandi, dove viene lodato lo “stakanovismo” e l’ottenimento del risultato mediante premi puramente e quasi sempre solo simbolici, volti più a mettere in cattiva luce gli “sfaccendati” o i “non-ambiziosi” e incentivarli ad alzare il ritmo lavorativo…
Ritmo che va mantenuto alto anche nei rapporti tra colleghi, dimostrando senso di partecipazione, convinzione in ciò che si fa e di cui si è parte, venerazione “assoluta” nei confronti dell’azienda: viene del tutto negata la parte del dissenso o di critica o di rivendicazione alcuna all’interno della struttura. Nel momento in cui si evidenzia una frattura od un calo di motivazioni, il collaboratore viene convocato dal titolare o responsabile di turno e, se non dimostra attaccamento all’azienda, viene allontanato o convinto a farlo da sé.

L’azienda provvede, però, a vendere un’immagine di sé stessa dorata e giovanile al collaboratore, fornendo, o meglio, imponendo, momenti di socialità e di festa ovvero aperitivi tra colleghi (ma con la presenza fissa dei titolari), riunioni motivazionali seguite da premiazioni dei migliori e, a loro volta, da cene e serate in discoteca pagate dall’azienda, in cui però il prezzo da pagare è la partecipazione obbligata, anteponendo questi momenti lavorativi a tutto il resto della propria vita.

In effetti, in certi gruppi interni a Tecnocasa, chi preferisce fare altre cose nel suo tempo libero, tende a produrre la propria emarginazione ed espulsione, di fatto dimostrando di non condividere in toto lo spirito aziendale, anzi insinuando la presenza di momenti migliori o più importanti al di fuori dell’azienda. Tale spirito viene venduto sia ai collaboratori che ai clienti come il migliore in assoluto, a differenza di tutte le altre aziende, le quali vengono dipinte, velatamente o apertamente, come use ai comportamenti più turpi e amorali pur di “fare soldi”, con presenza massiccia di agenti immobiliari abusivi e mancanza di preparazione, che inevitabilmente vanno a danneggiare l’utenza, cosa che invece Tecnocasa sostiene di non fare...

In realtà, dal momento che i ritmi di lavoro interni sono estremamente opprimenti, il turnover che ne deriva è cospicuo, ragion per cui l’azienda, al fine di tenere all’interno il maggior numero di informazioni, non far legare la clientela ad un collaboratore ma al marchio, impedire di fornire strumenti alla tentazione di “mettersi in proprio” di un collaboratore, non forma realmente i dipendenti e, inoltre, praticamente impedisce loro la partecipazione ai corsi organizzati dalle associazioni provinciali di categoria al fine di sostenere l’esame per ottenere l’abilitazione alla professione (il cosiddetto “patentino”), se non dopo qualche tempo, a seconda dei casi, quando teoricamente il collaboratore è fidelizzato ai meccanismi interni dell’azienda e può potenzialmente diventare un nuovo affiliato e quindi poter essere momento di espansione per l’azienda stessa (per Tecnocasa significa guadagnare con l’entrata di una royalty pagata in più).

I corsi interni di formazione svolti da Tecnocasa, pertanto, non sono né riconosciuti, né controllati dall’esterno; quindi, non qualificanti. Al fine di migliorare la resa del collaboratore, questi corsi spesso e volentieri sono anche svolti a livelli motivazionale e comunicativo, diventando veicoli di istanze corporativiste a cui tende l’azienda per risolvere gli eventuali e immancabili conflitti che sorgono nel singolo a fronte di una mole eccessiva di lavoro e una sperequazione estremamente marcata nella redistribuzione degli introiti, non mascherabile perché, in realtà aziendali di dimensione estremamente ridotte come le agenzie immobiliari, è sotto gli occhi di tutti.

Questa impostazione volta a risolvere il “conflitto”, diventa poi tendenza dell’azienda a diventare totalizzante, in alcuni casi riuscendoci, fornendogli gratificazioni e ricompense non solo economiche ma anche emotive, anche esaltando il successo economico che ha spinto ad inseguire e che all’esterno non sempre è condiviso in modo fanatico. L’obiettivo comunque è quello di riuscire a mantenere il controllo degli introiti, tenerli in Tecnocasa ed evitare la creazione di un nuovo concorrente.

In una fase di mercato espansivo, questo sistema è solo in parte efficace. Molte persone che entrano in Tecnocasa ne escono rapidamente, convinte a ragione di poter trovare di meglio: si tratta di situazioni lavorative pesanti e troppo poco retribuite, con un’impostazione vagamente anglosassone (ma solo nei carichi di lavoro). I neo-assunti, quando vedono che a guadagnare è solo l’agenzia, se ne vanno, lasciando, tuttavia, una mole di lavoro in “eredità” che, poi, gestirà un'altra persona e che, ancora, porterà tutto il guadagno all’agenzia.
Ogni ingresso di nuovo personale significa investimento su mano d’opera a bassissimo costo e praticamente a zero rischi: infatti, anche se il collaboratore non vendesse nulla in sei mesi e recepisse solo il fisso – nella realtà questa situazione non si protrae oltre il quarto mese –, la perdita per l’agenzia è davvero minima perché le resterebbero comunque gli incarichi di vendita acquisiti dal funzionario e che, per almeno la metà, si tradurranno in vendite certe con il recupero pieno dei costi sostenuti + guadagno; in caso di vendite, poi, la percentuale fissa stornata è assolutamente minima per l’agenzia.

In periodi di recessione come quello attuale, invece, tutto questo contesto assume una forza ricattatoria notevole, poiché il neo-assunto, magari a fronte di un’assenza di alternative lavorative nel breve periodo, per avere un minimo introito deve sottostare alle imposizioni aziendali e si trova, così ad accettare una logica lavorativa precaria estrema, ed essere merce, nulla più, nelle mani del titolare, che, nel caso non fosse più produttivo o almeno a certi livelli, può sbarazzarsene senza troppi problemi quando vuole. La ridistribuzione sproporzionata dei guadagni poi, nei momenti attuali, impedisce al funzionario di accantonare somme significative e lo porta a subire atteggiamenti ricattatori, a cui opporsi significa – come si diceva prima – solo perdere il posto.

Come si può fare per mettere fine a questa situazione, o almeno per lenire le conseguenze più drammatiche? È chiaro infatti che questi meccanismi sono dovuti alla stessa economia capitalistica, alla “vendita” che ti spinge a mettere il profitto sopra a ogni cosa. Così com’è chiaro che in una società diversa, il servizio “utile” che un’agenzia immobiliare rende alla società (quello di far incrociare domanda e offerta), sarebbe gestito in un’ottica pubblica, dando a ciascuno una casa dignitosa, appropriata alle diverse esigenze…

Quello che però qui mi interessa è cercare di capire come rendere – da subito – consapevoli i miei colleghi delle agenzie. Da questo punto di vista, la prima cosa da fare è uscire dalla sola specificità di TECNOCASA e inserirla all’interno di un contesto più ampio, altrimenti si tratterebbe “solo” di una degenerazione del sistema, che invece prolifera in molti franchising, agenzie assicurative, di telecomunicazioni, di intermediazione varia che utilizzano lo stesso modello...

Letto in quest’ottica, il modello lavorativo di TECNOCASA non è numericamente insignificante e anzi indica un terreno dove si sta “giocando” una battaglia importante per il capitale italiano. Battaglia nei confronti della quale sarebbe vitale e necessario contrappore una resistenza significativa ri-identificando i singoli e ri-unendoli in una composizione di classe.

Classe dalla quale, a differenza di quello che credono gli stessi lavoratori del settore, non sono mai usciti, ma al cui interno è possibile ricomporre le istanze e portarle avanti. Come singoli, infatti, si è necessariamente costretti a sottostare ai ricatti del capitale: è una differenza di mezzi a disposizione.
Questa battaglia riguarda la legittimazione e l’accettazione di un modello di sfruttamento: se passa il concetto del salario che è pagato non perché il lavoro è un diritto, ma perché è stato raggiunto un “risultato” e questo è legato ad una “forma” contrattuale (in realtà a-contrattuale) che costringe il lavoratore a dannarsi per poter portare a casa qualche “briciola”; se questo modello non trova forma di resistenza, e di fatto finora è stato così, chi impedisce di portarlo all’interno della “fabbrica”, ma anche della scuola e della sanità, della pubblica amministrazione? E in effetti è proprio di questo che hanno parlato Confindustria e Bankitalia, e rendere possibile che ciò accada è uno degli scopi del Governo Renzi…
Non solo. Questo modello si è già insinuato, con impiegati inquadrati da tempo (es. impiegati commerciali, dirigenti di minor livello) con queste forme contrattuali, e la propaganda già insiste da un po’ su questi argomenti: bisogna essere “imprenditori di sé stessi”, mettere su start-up, avere intraprendenza, iper-competitività e mille altre cazzate del genere… Tutto per annullare il valore della nostra forza-lavoro in cambio, alla meglio, di una compartecipazione al “rischio” del capitale pari a qualche mancetta, ora chiamata provvigione, ma che, di fatto, se accettata, diventa l’autorizzazione a sbarazzarsi del servo quando i suoi “uffici” non servono più o danno fastidio…
È, quindi, in questo nodo del conflitto capitale/lavoro che si sta giocando una partita importante, sulla cui sperata (ma non sicura) vittoria, la borghesia sta già costruendo la sua retorica e il suo dominio totale. Un intervento politico in senso antagonista, invece, che ribadisse a questi lavoratori, ai miei colleghi atomizzati, il concetto del lavoro come diritto e riuscisse a coagularli nella lotta, danneggerebbe i modelli del capitale dal loro stesso interno e ribadirebbe che tutte le pretese di onnipervasività, validità “scientifica” etc della borghesia sono fittizie e del tutto scardinabili.

La strada è lunga, ma da qualche parte bisogna pure iniziare!

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