[Torino] La lotta dei facchini del CAAT

Ci eravamo occupati già tempo fa della situazione dei facchini del Caat (mercati generali) di Torino in concomitanza col primo sciopero al mercato e poi, più recentemente, il 16 ottobre in occasione dello sciopero nazionale della logistica.

La lotta di questi lavoratori negli scorsi mesi ha visto momenti di elevata conflittualità che hanno permesso di ottenere importanti risultati (rispetto delle 8 ore, abolizione del lavoro nero, pagamento di ferie, malattie, straordinari) in alcune cooperative.

Purtroppo però questi risultati non sono stati ottenuti in tutte le cooperative, per cui da qualche settimana è partita la campagna per ottenere un contratto unico applicato a tutte le società che gestiscono la movimentazione delle merci all'interno del mercato, in modo da garantire uguali diritti per tutti i lavoratori del sito. Ripubblichiamo di seguito un articolo che racconta la lotta dei facchini e le rivendicazioni che intendono portare avanti, invitando tutti a seguire gli sviluppi della campagna al blog caatinlotta.wordpress.com e alla pagina  !  

Il C.A.A.T., Centro Agro Alimentare Torinese, è il terzo centro italiano di vendita all’ingrosso di prodotti ortofrutticoli e rifornisce tutti i giorni i mercati e i supermercati della città. Dalla scorsa primavera i facchini che lavorano al suo interno stanno lottando contro lo sfruttamento selvaggio e per ottenere condizioni di lavoro almeno dignitose. Per capire quanto sia strategica la funzione dei mercati generali, bisogna prima soffermarsi sulla particolare conformazione dei mercati rionali all’interno di Torino. Infatti, oltre alla rete di supermercati che in questi anni ha invaso la nostra città come molte altre, il capoluogo torinese conta anche su una peculiare e ramificata rete di mercati rionali: in tutta la città sono ben 43, distribuiti su tutto il territorio, dal centro alle periferie. Questa scelta ha ragioni storiche da ricercarsi nell’esigenza, all’interno della città operaia della Fiat che negli anni ’60 aveva vissuto un’urbanizzazione proletaria impetuosa, di poter disporre di cibo a basso costo che permettesse di mantenere i salari operai il più bassi possibile. I mercati generali situati alle porte di Torino sono il motore necessario ad alimentare costantemente questa capillare rete di mercati. Ma cosa c’è dietro la merce freschissima che i padroni del CAAT si vantano di far arrivare sui banchi? Per scoprirlo dobbiamo entrarvi dentro, là dove i facchini caricano e scaricano la merce che arriva tutti i giorni nei nostri mercati.


I mercati generali nascono nel 1928, quando il Comune di Torino stanzia 10.600.000 lire per costruire il nuovo Mercato Ortofrutticolo della città in Via Giordano Bruno. Nel 2002 avviene poi il trasferimento vicino all’Interporto di Orbassano in una struttura nuova e logisticamente meglio ubicata. Il mercato occupa una superficie di 440.000 mq, di cui 120.000 coperti ed al suo interno operano 84 grossisti e 34 operatori logistici, in gran parte cooperative, che ogni anno movimentano 550.000 tonnellate di merce, per un giro d’affari di 550 milioni di euro, il terzo in Italia.

Ma come funziona davvero questo colosso?

Il CAAT, controllato al 92% dal Comune di Torino, concede le piazzole ai grossisti, i quali poi appaltano alle cooperative l’incarico di caricare e scaricare la loro merce. All’ultimo anello della catena si trovano i facchini, soci, o meglio dire dipendenti, di queste cooperative. Ogni notte questi lavoratori si recano al CAAT tra mezzanotte e le due. Qui scaricano la merce nelle piazzole dei grossisti e la ricollocano sui banchi entro le 3:30, quando cominciano ad arrivare i clienti (mercatari, supermercati, ristoranti e bar) per acquistare la merce che viene poi caricata sui loro furgoni, spesso dagli stessi facchini.

Le difficoltà per i lavoratori cominciano già prima di bollare l’ingresso. Raggiungere il posto di lavoro è infatti un’impresa di non poco conto, perché la struttura è collocata fuori città e di notte sono molto pochi i mezzi pubblici in funzione: per chi non ha la macchina ciò significa partire da casa a mezzanotte (più tardi non ci sarebbero più autobus) per arrivare al CAAT all’una e poi dover attendere ancora un’ora, al gelo di in un piazzale deserto, prima di cominciare a lavorare. L’autobus fa una prima fermata davanti all’ingresso principale dove scendono i lavoratori regolari, poi riparte e scarica ad una fermata “abusiva” altri lavoratori che di corsa scavalcano il muro: sono lavoratori in nero, spesso immigrati, che sono costretti a prestare la loro forza-lavoro per pochissime decine di euro al giorno.

Ma le difficoltà non si fermano certo ai cancelli del mercato. Una volta entrati i lavoratori in nero aspettano la chiamata dei capi delle cooperative che agiscono da veri e propri caporali, scegliendo di volta in volta a chi concedere il “lusso” della nottata lavorativa.
Se questa è la trafila per i lavoratori irregolari, non va molto meglio a chi invece un contratto regolare ce l’ha. Questi infatti vengono assunti con contratti da 8 ore, ma di fatto ne lavorano regolarmente molte di più, ovviamente senza straordinario pagato: con questo metodo abbiamo facchini che, come dimostra la bollatura, hanno lavorato anche 16 ore in un giorno per salari attorno ai 4 euro l’ora: in sostanza una forma “moderna” di schiavitù. Per non parlare poi di ferie e malattie: queste sono del tutto inesistenti, con i facchini che, in caso di malattia, sono costretti a farsi sostituire da amici o parenti per non rischiare di perdere il posto di lavoro. Ma i problemi non si fermano a orari e retribuzione: i carichi di lavoro sono massacranti e danneggiano gravemente la salute di lavoratori che non godono di alcuna copertura sanitaria e operano in un’area affollatissima (parliamo di 800 facchini “ufficiali”), ma sprovvista di un presidio sanitario fisso. Ma la sicurezza fisica dei lavoratori è davvero l’ultimo dei pensieri di chi gestisce il CAAT: R. ci racconta infatti come più di una volta sia stato costretto a guidare un muletto senza freni e come, dopo mesi di attesa, sia stato costretto a comprarsi da solo scarpe e caschetto perché la cooperativa non si era nemmeno preoccupata di procurare l’attrezzatura minima.

Come accade per l’intero comparto della logistica, sono proprio le cooperative a svolgere un ruolo cruciale per il disciplinamento della forza lavoro. Infatti queste ricoprono spesso una funzione di intermediazione di manodopera che da un lato sgrava il committente (in questo caso il grossista) dalle sue responsabilità verso i lavoratori e dall’altro, godendo di forme giuridiche favorevoli, riducono i diritti dei soci-lavoratori che in realtà sono veri e propri lavoratori dipendenti. A giovarsi di questo sistema sono appunto i grossisti, che spesso posseggono dietro prestanome le stesse cooperative, e che possono imporre su di esse ogni decisione. Emblematico il caso del grossista Almonte che, dopo un cambio d’appalto, ha costretto la nuova cooperativa, “ La Mecca” a non riassumere i 3 lavoratori sindacalizzati che operavano per lui con la vecchia cooperativa.
Le cooperative gestiscono la manodopera, i grossisti impongono modalità, tempi e retribuzione, nonché chi abbia il “diritti” di lavorare e chi no, ma manca ancora un elemento: chi gestisce il luogo fisico ed i rapporti tra le parti che vi operano? Il garante del rispetto delle norme all’interno del CAAT è il suo azionista di maggioranza, il Comune. Quest’ultimo conosce benissimo le condizioni di lavoro dentro il centro, ma ha sempre chiuso entrambi gli occhi, perché lo sfruttamento dei facchini faceva comodo a cooperative e grossisti per abbassare il costo del lavoro. Ad esempio l’amministrazione cittadina per anni ha finto di non vedere il fenomeno del lavoro nero ed ora, con le ispezioni e i controlli delle ultime settimane, vorrebbe far sembrare che il problema sia tutto lì, nel lavoro irregolare. Ma in realtà i facchini sanno bene che il problema è un altro: la democrazia, per quel che ne rimane, si ferma ai cancelli del CAAT; dentro si lavora in un ambiente sospeso, in cui lo sfruttamento è l’unica legge in vigore.

Per ribellarsi a questa situazione ed al licenziamento di 5 colleghi, nel maggio scorso alcuni facchini hanno cominciato ad organizzarsi col sindacato Si Cobas. Tutto comincia quando un facchino, dopo essere stato costretto a lavorare 220 ore in un mese, si vede decurtare lo stipendio di ben 850 euro per presunti errori: la sua cooperativa, come tante altre, è in realtà proprietà del grossista che impone questa punizione. Ma il lavoratore non ci sta e, col supporto del sindacato e degli altri facchini, da vita a una mobilitazione che sfocia nel sorprendente sciopero di giovedì 22 maggio, che ha visto la partecipazione attiva di oltre 200 facchini sugli 800 che lavorano al mercato e un’adesione allo sciopero quasi totale! Nonostante le intimidazioni dei padroncini delle cooperative e le cariche della polizia, la determinazione dei lavoratori ha permesso per tutta la notte di bloccare i cancelli, non permettendo a nessun camion di entrare a caricare o scaricare merce. Per placare la protesta, le cooperative e il Comune, nella persona dell’assessore al commercio Mangano, si sono dette disposte ad aprire un tavolo di trattativa col sindacato. Le richieste dei lavoratori si sono articolate su più punti: un salario minimo di 8 euro l’ora, un contratto unico valido per tutte le cooperative che operano dentro il CAAT, uno spazio sindacale all’interno della struttura, il rispetto degli orari di lavoro e il pagamento regolare di ferie, malattie, straordinari; la regolarizzazione dei lavoratori in nero; la messa a disposizione di autobus negli orari opportuni, la fine delle minacce e delle vessazioni che i facchini devono spesso subire da parte dei capi delle cooperative e dai grossisti.

Da allora qualcosa è cominciato a cambiare, ma purtroppo la resistenza delle cooperative e in particolare dei grossisti che sullo sfruttamento e la sofferenza umana hanno sempre spudoratamente lucrato, continuano a darsi forza con discriminazioni, licenziamenti, intimidazioni e ricatti quotidiani.

In questa situazione di stallo il sindacato ha lanciato un’altra giornata di mobilitazione in occasione dello sciopero nazionale della logistica il 16 ottobre. Questa volta, davanti ai cancelli del CAAT, i facchini hanno trovato un clamoroso dispiegamento di polizia in assetto antisommossa che ha impedito il blocco del traffico merci. Il presidio è comunque proseguito per tutta la notte davanti all’ingresso del centro e anche questa volta lo sciopero ha avuto un’altissima adesione. La reazione del sistema CAAT (Comune, grossisti, cooperative) è stata decisa: intimidazioni nei confronti di chi aveva partecipato allo sciopero e soprattutto verso chi è organizzato nel sindacato anche con minacce e sospensione, fino all’estromissione dal tavolo delle trattative del sindacato che aveva organizzato lo sciopero. Fino all’episodio più eclatante: il grossista Almonte, dopo un cambio di appalto che ha visto subentrare una nuova cooperativa, ha imposto a questa la non riassunzione di 3 facchini sindacalizzati presenti nella vecchia cooperativa. Nella notte del 30 ottobre una ventina di lavoratori si è riunita per protesta davanti alla piazzola del grossista, il quale per tutta risposta ha sospeso uno dei lavoratori manifestanti, decisione poi revocata grazie alla determinazione di tutti i facchini presenti. In ogni caso per rispondere al licenziamento dei 3 facchini, il Si Cobas ha immediatamente aperto una vertenza legale contro la cooperativa e il grossista, accusandoli di intermediazione di manodopera e discriminazione sindacale.

La lotta al CAAT, dunque, prosegue per ottenere il rispetto dei diritti di chi col suo lavoro permette a tutti di avere nei mercati la merce che acquistiamo tutti i giorni. Nelle ultime settimane, parallelamente alle intimidazioni e alle minacce subite dai facchini più attivi, si sono susseguite diverse ispezioni che hanno portato all’espulsione di alcuni lavoratori irregolari. Questo attacco nei confronti dei lavoratori in nero, quasi sempre immigrati, non ci sorprende: come sempre si cerca di far ricadere le colpe di un intero sistema di sfruttamento su alcune storture di esso (in realtà perfettamente congeniali al suo funzionamento complessivo), facendola pagare a chi si trova più esposto perché costretto a lavorare senza tutele e senza poter fiatare perché sottoposto la ricatto dell’espulsione. Ma i lavoratori del CAAT, immigrati e italiani, “ufficiali” e in nero, sanno bene che il marcio che infesta il mercato non è solo il lavoro nero, bensì quanti dello sfruttamento dei facchini si appropriano tutti i giorni: i grossisti che fanno profitti sulla pelle dei lavoratori, le cooperative che li supportano e le istituzioni che coprono questo sistema marcio.
Perciò la lotta continua per una paga decente (e 8 euro è davvero il minimo), il rispetto di un contratto unico che valga per tutti (aziende e cooperative grandi e piccole), la regolarizzazione (e non l’espulsione) di chi lavora in nero, la possibilità di organizzarsi sindacalmente per far rispettare i propri diritti di lavoratori, la presenza di un presidio sanitario che garantisca pronto intervento in caso di infortuni: sono richieste minime, ma necessarie per rendere meno simile alla schiavitù il lavoro dentro al CAAT.



SIAMO LAVORATORI, NON SIAMO SCHIAVI !

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