Chi è colpevole del massacro di Soma in Turchia? Cronaca di una morte annunciata

I fatti di Soma – i quasi 300 minatori turchi morti a causa di un “incidente sul lavoro”, un’esplosione verificatasi a due km di profondità, probabilmente dovuta ad un cortocircuito – già non aprono più i palinsesti dei tg e non occupano più le prime pagine dei quotidiani.

Eppure non solo nelle miniere vicine all’antica Pergamo si scava ancora per recuperare i corpi delle vittime, ma tutta la Turchia sembra essersi infiammata di proteste e mobilitazioni in nome della giustizia e della sicurezza sui posti di lavoro.
Altro che “morti bianche” – espressione ipocrita con la quale spesso i media e i politici cercano di indorare la pillola quando parlano delle vittime del tentativo di fare sempre maggiore profitto tagliando sulla sicurezza dei lavoratori – la morte dei lavoratori turchi è nera come le gallerie profonde nelle quali quotidianamente si calavano e nelle quali hanno trovato la morte, bloccati a duemila metri di profondità con maschere di ossigeno ad autonomia limitata.

In un recente comunicato DISK (Confederazione dei Sindacati Progressisti della Turchia), KESK (Confederazione dei Sindacati del Pubblico Impiego), TTB (Associazione Medica Turca) e TMMOB (Camera degli Ingegneri e Architetti Turchi), chiamano il dramma di Soma con il suo vero nome: si tratta di un omicidio - altro che incidente! – e invitano il popolo turco a portare il lutto per manifestare la loro rabbia e tristezza per questo delitto efferato commesso in nome del Capitale e la loro solidarietà alle vittime e ai loro parenti. “Centinaia di fratelli che lavoravano a Soma sono stati costretti a produrre in modo disumano per ottenere il massimo profitto, - recita il comunicato - dato che la questione della promozione della salute e delle misure di sicurezza per i lavoratori è considerata in termini di pro e contro per il bilancio aziendale. Ciò significa che i lavoratori erano dati per morti sin dall’inizio. Chi ha portato avanti le politiche di privatizzazione e ha dato via libera ai subappaltatori, chi ha voluto uccidere dei lavoratori per ridurre i costi e chi li ha incoraggiati: tutti costoro sono colpevoli del massacro di Soma. Chi con le sue dichiarazioni e con le sue pratiche ha giustificato i precedenti massacri di minatori, chi ha privatizzato finanche le ispezioni sulla sicurezza e la salute sul lavoro grazie alla legge sulla sicurezza sul lavoro: anche loro sono responsabili. Tutti costoro devono rispondere delle loro azioni.” (trad. da connessioni precarie).

E devono averla pensata allo stesso modo le centinaia di persone che due giorni fa hanno contestato il premier Recep Tayyip Erdogan dopo la conferenza stampa tenuta nella località mineraria nella quale si era espresso a nome del governo sui fatti di Soma. Tra i fischi e gli insulti il premier si è dovuto rifugiare in un supermercato assediato dai manifestanti per aspettare che la situazione si calmasse. E se l’è cavata davvero con poco – qualche spintone e qualche insulto – se si pensa che le sue prime dichiarazioni a caldo sull’”incidente” nella miniera tendevano a minimizzare (per usare un eufemismo) l’accaduto. Si tratta di cose ordinarie, ha detto il premier, che possono succedere in un luogo pericoloso come una miniera, basta pensare alla Gran Bretagna degli inizi del Novecento e ai numerosi incidenti che si verificarono lì proprio a danno dei lavoratori che faticavano nelle gallerie per estrarre carbone e metallo. Insomma, sembra sottintendere Erdogan, sono cose che capitano, che avranno mai da lamentarsi questi minatori? Sono i rischi del mestiere!

L’affermazione fa inorridire, ma su una cosa il premier turco ha ragione, non si tratta di niente di nuovo né di imprevedibile. E non c’è bisogno di scomodare i minatori inglesi del secolo scorso per capirlo. Nel 2013, sono stati 93 i lavoratori morti nelle varie miniere del paese e nel novembre scorso 300 minatori si erano rinchiusi in fondo alla miniera di Zanguldak (miniera della Regione del Mar Nero dove vent’anni fa un’esplosione ha causato 163 vittime) per protestare contro le misure di sicurezza insufficienti dell'impianto.

Solo due settimane fa era stata bocciata dall’Akp (partito del premier che ha la maggioranza assoluta nel parlamento turco) la proposta del Chp (partito all’opposizione) di aprire un'inchiesta sulla sicurezza proprio nella miniera di Soma. Le autorità preposte – questa la ragione addotta dalla maggioranza per respingere la proposta del Chp - avrebbero condotto almeno già quattro ispezioni nella miniera negli ultimi due anni, garantendo riguardo al buon funzionamento dei dispositivi di sicurezza. Peccato che si trattasse di controlli concordati, di cui i responsabili della miniera venivano pre-allertati in tempo per coprire temporaneamente le falle del sistema, una pratica che ha luogo in molti altri Paesi, tra cui anche il nostro, ma che appare tanto più pericolosa e criminale alla luce degli avvenimenti degli ultimi giorni e che probabilmente ha contribuito a far scalare alla Turchia la classifica degli Stati della zona europea con il tasso più alto di incidenti sul lavoro.

Ma, come hanno sottolineato i promotori dell’appello riportato poche righe più sopra, non è possibile leggere i fatti di soma semplicemente come risultato di un mix letale di corruzione, menefreghismo delle istituzioni, addirittura di cattiva sorte. La morte dei minatori turchi, o meglio, come recita il comunicato, il loro assassinio, è un fatto voluto e, in un certo senso, preventivato. Fa parte dei “costi di produzione”, è il risvolto “scomodo”, ma necessario e implicito ad  un processo di privatizzazione selvaggia e di ipersfruttamento. Un paio di anni fa, così riportava 3 giorni fa il quotidiano turco Hurriyet, il proprietario della miniera di Soma si fregiava di essere riuscito, riducendo il costo del lavoro, ad abbassare da 130 a 24 dollari il costo di una tonnellata di carbone. Ora sappiamo in che modo, e soprattutto sulla pelle di chi.

La crescita vertiginosa registrata in Turchia negli ultimi 10 anni o poco più (tutti gli indicatori macroeconomici - PIL, inflazione, debito pubblico, Investimenti Diretti all’Estero – si sono impennati in maniera evidente) viene pagata quotidianamente dai lavoratori con un tributo di fatica e, l’abbiamo visto in questi giorni con la massima evidenza, anche di sangue.

Solo nel 2001, si profilava un serio rischio di bancarotta per la Turchia, incapace di trovare finanziatori sui mercati internazionali e di piazzare i propri titoli di Stato. Oggi l’economia del Paese è in crescita anche grazie alla sua attrattività per gli investimenti esteri ed Erdogan è l’uomo chiave di questa transizione, capace di legare in un patto d’acciaio, che ha caratterizzato gli ultimi dieci anni della vita politica turca, neoliberismo e islamismo. Erdogan concilia un’aggressiva politica economica antipopolare con costruzione di consenso e di unità nel corpo sociale grazie al richiamo religioso e ai suoi dispositivi di educazione, cura e contenimento.

Il premier turco, fra il 2003 e il 2005, ha portato avanti con estrema determinazione un programma che prevedeva:    
a) una legge quadro sugli investimenti esteri (che ha come sottopunto una “protezione contro gli espropri”);  
b) una normativa che disciplina la creazione di imprese;
c) la riforma del mercato del lavoro;   
d) la legge sul controllo della finanza pubblica;
e) la normativa sugli appalti pubblici;
f) le liberalizzazioni del mercato elettrico, del gas, degli alcolici, della telefonia fissa e mobile;
g) le privatizzazioni del comparto della TEKEL e delle raffinerie della TÜPRAS e della compagnia elettrica TEDAŞ (per saperne di più leggi il nostro approfondimento sulla trasformazione degli ultimi anni dell’economia turca).

Questa riforma è nel suo complesso un chiaro invito per gli investitori stranieri a venire a fare affari in Turchia, certi di una legislazione favorevole e di una mano d’opera a basso costo. In questo quadro è prevista anche la possibilità per i capitali esteri di controllare sino al 100% delle aziende turche, tranne quelle individuate da regolamenti speciali; la possibilità di fare ricorso agli arbitrati internazionali; addirittura la libertà per i capitali stranieri di rimpatrio dei profitti, dei dividendi e di ogni altro provento; l'esenzione delle imposte doganali per l'importazione di macchinari e attrezzature; l'esenzione da IVA rispetto all'acquisto di macchinari prodotti in loco. 
Ciliegina sulla torta, sono state create anche delle “zone economiche speciali” in cui lo Stato dà incentivi economici, terreni gratuiti, alleviamento fiscale, alleviamento dei contributi pensionistici per i lavoratori (cioè i soldi non ce li mette il padrone, ma lo Stato), e viene anche data la possibilità di utilizzare le strutture universitarie pubbliche per effettuare ricerche e sviluppo a vantaggio di aziende private. In altre parole, il Governo turco regala il paese e la sua popolazione al capitale internazionale, subordinando l’uno e l’altro all’imperialismo.

Ma tutte queste riforme a scapito della classe lavoratrice hanno avuto non pochi contraccolpi riguardo alla politica interna e alla “pace sociale” nel Paese: nel 2004 arrivano i primi scioperi nel settore della produzione dei pneumatici. Le proteste dei lavoratori di diversi settori aumentano costantemente fino al 2007, anno in cui c'è un fortissima mobilitazione contro la privatizzazione della Turk Telecom (circa 26.000 lavoratori coinvolti, pochi se pensiamo in termini astratti, ma tantissimi se pensiamo che sono 20 volte di più che pochi anni prima, e se riflettiamo sul dato che la sindacalizzazione in Turchia riguarda nemmeno tre milioni di lavoratori su 23). Il 2008 è caratterizzato da grosse mobilitazioni contro la riforma delle pensioni e la riforma sanitaria, ma la situazione esplode davvero nell'ottobre del 2009, quando a Istanbul c'è il vertice dell'FMI e della Banca Mondiale. Per giorni in città si succedono scontri anche molto duri, ci sono tanti arresti e feriti. Non a caso il 2009 è anche l’anno di nascita di Resistanbul, una delle sigle che ha caratterizzato anche la mobilitazione dello scorso anno di piazza Taksim. Questo flusso prosegue imperterrito per tutto il 2010, anno in cui scendono in piazza, con relativi scontri, gli operai della TEKEL, avvengono le proteste contro il Referendum Costituzionale del 2010 e la riforma della scuola del 2012, che fra le altre cose lascia senza lavoro ben 300.000 insegnanti che si iniziano a organizzare. Nello stesso tempo il pubblico impiego si mobilita per il rinnovo del contratto: migliaia di lavoratori chiedono addirittura aumenti salariali.

Insomma le mobilitazioni di questi giorni in solidarietà alle vittime di Soma non nascono dal nulla, tantomeno il dissenso nei confronti di Erdogan. Certamente hanno fatto scandalo le foto di un suo consigliere, Yusuf Yerkel, che evidentemente aveva deciso di fare il lavoro sporco da solo, e ha iniziato a prendere violentemente a calci un manifestante – che pare per giunta fosse parente di una delle vittime - che protestava per l’inadeguatezza delle misure di sicurezza a Soma, così come fanno indignare le immagini di un presunto destro sferrato dal premier contro uno dei contestatori che lo hanno accolto a suon di fischi e meritati insulti durante la sua recentissima visita nella regione mineraria. Ma l’indicazione e la rabbia dimostrati in questi giorni dai manifestanti turchi hanno radici ben più profonde.

Così ieri gli slogan scanditi nelle piazze di Soma, Ankara, Smirne, Istanbul non ricordavano solo il disastro della miniera, i 282 lavoratori morti e i 100 ancora intrappolati e senza nessuna speranza di rivedere la luce. Nella giornata di lutto nazionale e di sciopero duro in tutto la Turchia proclamato dalla confederazione dei sindacati “Kesk” si protestava contro le condizioni di lavoro inaccettabili, l’autoritarismo di Erdogan, le privatizzazioni selvagge. Non solo il dolore per i minatori e per le loro famiglie, nemmeno solo lo sdegno per il cinismo dei suoi rappresentanti politici: a riscaldare gli animi è la profonda consapevolezza che quella delle vittime di Soma è stata una “morte annunciata” – calcolata e prevista come “costo accessorio” perfettamente previsto e sostenibile e “danno collaterale” del processo di produzione – e la certezza, per i lavoratori turchi di non trarre alcun beneficio, ma anzi di pagare un prezzo troppo alto, insostenibile, in termini di sangue e di sfruttamento per la “rinascita” e la crescita economica del proprio Paese.

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