Libano: la primavera del lavoro e delle donne

Del Libano non sentiamo parlare spesso. Eppure anche questo paese, che spesso ci viene raccontato come "paralizzato" dalle tensioni confessionali, è attraversato da importanti mobilitazioni che, come in tante altre parti del mondo, vedono in prima linea le donne e i lavoratori. Per questo ripubblichiamo con molto piacere un interessante articolo di Nena News sulle ultime lotte nel "paese dei cedri".

In concomitanza con la ripresa delle attività parlamentari dopo circa un anno di paralisi conseguente alla lunga crisi politica scatenata dalla caduta dell’esecutivo Miqati, donne, sindacati e lavoratori sono scesi in piazza per reclamare i diritti messi all’angolo dallo scontro senza fine tra le due grandi coalizioni dell’8 e del 14 Marzo.

Completati tutti i passaggi istituzionali affinché il nuovo governo di unità nazionale guidato da Tammam Salam e formato lo scorso 15 febbraio potesse diventare effettivamente operativo, infatti, il Parlamento libanese si è riunito da martedì in sessione plenaria per sbloccare ben 70 provvedimenti rimasti sospesi dalla scorsa legislatura tra cui la legge contro la violenza domestica, le nuove scale salariali per i dipendenti pubblici e la regolarizzazione dei lavoratori giornalieri dell’Electricité du Liban (EDL), la compagnia elettrica nazionale.

Martedì è stato il turno delle donne, scese in piazza parallelamente alla votazione della legge contro la violenza domestica. La violenza domestica è una vera e propria emergenza in Libano. Dall’inizio dell’anno sono già cinque le donne (di cui due incinte) brutalmente uccise dai propri mariti, colpevoli di aver detto il primo “no” dopo anni di reiterati abusi, e nella maggior parte dei casi destinate a rimanere senza giustizia date le criticità sistema giuridico libanese.

Il Libano infatti, in quanto «democrazia confessionale», rimanda tutte le questioni inerenti il diritto di famiglia e lo statuto personale ai tribunali religiosi di ciascuna delle 17 confessioni che ne compongono il tessuto demografico, tutte caratterizzate da un impianto giuridico decisamente patriarcale grazie al quale per l’uomo è facile trovare scappatoie (se non addirittura esplicite giustificazioni) alla violenza di genere e in particolare in ambito familiare. Lo sa bene Kafa, Ong libanese tutta al femminile nata cinque anni fa come associazione antirazzista finalizzata alla tutela delle lavoratrici domestiche migranti e trasformatasi nel tempo in associazione antisessista, che negli anni ha raccolto e denunciato meticolosamente tutti gli episodi di violenza di genere sulle donne che in essa hanno trovato un rifugio e una piattaforma di lotta.

Dal luglio scorso Kafa ha lanciato la campagna #NoLawNoVote, proponendo una serie di emendamenti all’originale disegno di legge in particolare all’articolo 3, che non considera stupro la violenza sessuale coniugale, e all’articolo 13 che rimanda la custodia dei figli della donna vittima di violenza alle disposizioni previste dallo statuto di famiglia della sua confessione di appartenenza, e quindi al padre.  Nonostante l’ampissima adesione alla campagna e alle mobilitazioni, e le promesse sbandierate a destra e a manca da tutti i partiti politici rappresentati in Parlamento però, la legge uscita fuori dalla votazione di martedì è stata poco più che un palliativo. La violenza sessuale coniugale non è stata assimilata allo stupro, così come invariate sono rimaste le disposizioni in materia di custodia dei minori.

Con un pugno di mosche sono rimasti anche i dipendenti pubblici, riuniti nel Comitato di Coordinamento Sindacale (CCS) e guidati dalla Lega degli Insegnanti delle Scuole Secondarie e Primarie, che per mercoledì avevano convocato uno sciopero generale per rivendicare nuove scale salariali a fronte di stupendi rimasti fermi al 1996, nonostante un aumento dell’inflazione del 130%. Il braccio di ferro tra dipendenti pubblici e governo per l’adeguamento degli stipendi va avanti ormai da due anni, con una serie di prove di forza (cortei, blocchi stradali, scioperi) culminate nel marzo del 2013 con una grande manifestazione alla St. George Bay, simbolo delle speculazioni private sulle proprietà pubbliche avviatesi con la fine della guerra civile, dopo che l’esecutivo Miqati aveva accordato gli adeguamenti ai soli lavoratori del settore privato.

In effetti sono molti gli ostacoli oggettivi che i dipendenti pubblici (oltre 180.000) si trovano davanti per portare le loro rivendicazioni nei tavoli concertativi istituzionali e riuscire ad influenzare i rapporti di forza in proprio favore. In primo luogo, secondo la legislazione sul lavoro libanese (tra l’altro ferma al 1946), non solo non hanno diritto alla sindacalizzazione, ma potrebbero addirittura essere licenziati arbitrariamente o arrestati in caso di attività politiche indirizzate contro lo Stato e le sue istituzioni, sciopero compreso. In secondo luogo devono fare costantemente i conti con un sistema economico storicamente iperliberista e iperterziarizzato dove il pubblico, nettamente sottofinanziato, viene subordinato agli interessi dei grandi cartelli commerciali, bancari e finanziari legati a doppio filo con la classe politica al potere.

È proprio per l’ostruzionismo e l’attività di lobbying di questi ultimi riuniti nei cosiddetti Comitati Economici infatti che l’adeguamento delle scale salariali non ha avuto sbocco. Già dopo le mobilitazioni dell’inverno scorso avevano fatto posporre l’approvazione del disegno di adeguamento dietro il pretesto della mancata copertura della copertura finanziaria fino alla caduta del governo Miqati. La stessa farsa si è riproposta mercoledì, dove l’approvazione delle scale secondo quanto rivendicato dal CCS è finita in un binario morto proprio dietro il pretesto della copertura.

A far compagnia a i dipendenti pubblici mercoledì ci sono stati anche i lavoratori precari e giornalieri dell’EDL (oltre 1000), anch’essi da due anni al centro di una durissima battaglia con il governo segnata anche in questo caso da cortei, blocchi stradali e scioperi ad oltranza per l’assunzione a tempo indeterminato e l’estensione dei diritti previdenziali previsti per i dipendenti fissi.

Due anni fa l’EDL aveva esternalizzato i contratti di lavoro di precari e giornalieri a tre società private come “soluzione temporanea” prima dell’assunzione a tempo indeterminato, delegando a una commissione composta dai dirigenti di queste stesse tre società, strettamente legate ad Amal, il compito di stilare il disegno di legge per fissare i termini della loro assunzione definitiva. Una vera e propria beffa, tanto più dopo che nel gennaio 2013 il Presidente della Camera e leader di Amal Nabih Berri aveva sostituito in parlamento il disegno di legge per i lavoratori dell’EDL con un “accordo politico” che prevedeva il mantenimento dei contratti (e della precarietà) con le società private in cambio di un loro generico impegno ad iscrivere i lavoratori al Fondo Nazionale per la Sicurezza Sociale (l’equivalente della nostra INPS, ma a trazione privata), e la promessa di un “concorsone” per l’assunzione, mai arrivato.

Nella giornata di ieri il governo ha in effetti approvato un disegno di legge per l’assunzione definitiva dei mille precari. Occorre tuttavia esaminare il testo nel dettaglio per valutare se si tratta di un provvedimento finalmente concreto o dell’ennesimo specchietto per le allodole come nel caso della legge contro la violenza domestica e dell’adeguamento delle scale salariali per i dipendenti pubblici.

Quel che è certo è che questi tre movimenti ci mostrano la vitalità e l’attività di un fondamentale “sottobosco” politico tagliato fuori dalle narrazioni dominanti (e fuorvianti) che inchiodano il Libano al solo scontro confessionale decontestualizzato dalla sua profonda dimensione socio-economica, svelando al contempo l’impenetrabilità di tale sistema di fronte a qualsiasi minaccia in grado di metterne in discussione i fondamenti.

di Rossana Tufaro

Rete Camere Popolari del Lavoro