[Palestina] Sfruttamento e resistenza dei lavoratori palestinesi sotto occupazione. Due casi

L’unità sta alla forza come la divisione sta alla debolezza. Malgrado la semplicità e la banalità di questo concetto, dobbiamo riconoscere che abbiamo più d’una difficoltà a farlo nostro per davvero; al contrario, la controparte l’ha capito fin troppo bene e, soprattutto, lo mette in pratica.

Che si presenti sotto forma della segmentazione della forza lavoro con la costruzione e la contrapposizione di una miriade di figure lavorative interessate da forme contrattuali diverse o, invece, sotto quella della delimitazione della cittadinanza (ma quasi sempre procedono a braccetto), l’obiettivo è sempre lo stesso: indebolire il fronte del nemico, frammentandolo quanto più possibile.

Un caso scuola, in cui azione del capitale e dello stato si muovono perfettamente all’unisono è quello dato dai lavoratori palestinesi soggetti all’occupazione israeliana. I casi che riportiamo di seguito testimoniano l’esistenza di un conflitto in cui le lotte dei lavoratori sono rivolte contro il sistema che li configura come lavoratori di serie B, con tutto ciò che questo comporta: in particolare, la condizione di “palestinesi” rende questi lavoratori più facilmente sottoponibili al ricatto dell’espulsione dal corpo della forza lavoro, con la prospettiva di andare ad ingrossare le fila di quell’esercito di riserva che in Palestina costituisce addirittura il 20% della popolazione attiva. Proprio il controllo dei rubinetti dell’ingresso e dell’uscita della forza lavoro ha costituito uno dei punti centrali dell’occupazione israeliana che ha potuto opprimere i lavoratori palestinesi a seconda delle esigenze della fase: sottoposti ad un duro regime di sfruttamento sono stati poi ‘sapientemente’ sostituiti da lavoratori provenienti dal continente asiatico quando il loro tasso di concentrazione e le loro capacità di mobilitazione rischiavano di mettere a repentaglio il sistema di occupazione. Espulsi quindi. Oggi il rubinetto dei flussi continua ad aprirsi e a chiudersi in base alla volontà di Tel Aviv (per approfondire leggi qui) e costituisce una punta avanzata delle modalità di sfruttamento della classe lavoratrice a livello internazionale.

Sicuri che questi processi di frammentazione non interessino anche noi?


Lo scorso 13 giugno il giudice Daniel Goldberg del tribunale di Gerusalemme ha emesso una sentenza di notevole valore per i lavoratori palestinesi. E' infatti finito il travaglio di una decina di loro che dal 2008 aspettava questo verdetto. Nel corso degli anni altri colleghi avevano desistito, si erano arresi, erano giunti ad accordi con l'azienda, accettando piccole somme di denaro in cambio del ritiro del procedimento legale. Che cosa chiedevano i lavoratori palestinesi? Innanzitutto di metter fine al regime di abusi cui erano quotidianamente sottoposti per il solo fatto di essere "palestinesi dei Territori", fatto di stipendi non pagati e, laddove pagati, al di sotto del salario minimo. La Even Bar Company, azienda operante nel parco industriale di Mishor Adumim, è stata condannata a dover equiparare il trattamento dei lavoratori palestinesi a quello di quelli israeliani. Insomma, il verdetto del giudice ha messo in evidenza un'ulteriore ambito in cui si materializza quello che da molti osservatori viene definito "apartheid". Tutto bene quel che finisce bene, quindi? No, e non solo per il fatto che ovviamente anche questa sentenza costituirebbe semplicemente una goccia nel mare. C'è infatti di più: la Even Bar Company è prossima al fallimento e potrebbe quindi non pagare mai i danni cui pure i lavoratori palestinesi hanno ora diritto.

Fonte: Kav LaOved


Alcuni lavoratori palestinesi, provenienti dalla Cisgiordania e impiegati alla ‘Levy Metal and Wood’ presso Ma'ale Adumim, hanno denunciato le condizioni di sfruttamento che soffrono da anni e che sono costretti a subire a causa della minaccia posta dall'alto tasso di disoccupazione e povertà: paga al di sotto del salario minimo, mancanza di riposo, nessun contributo pensionistico, assenza di indumenti da lavoro e addirittura di acqua potabile, scarse condizioni di sicurezza, sottoposizione al trattamento di materiali chimici dannosi per la salute senza alcuna attrezzatura volta a proteggerla, nemmeno semplici mascherine. Non appena i lavoratori hanno cercato di organizzarsi e di unirsi in sindacato è scattata la repressione aziendale: immediatamente sei di loro sono stati licenziati. Ora sono state impostate delle trattative, ma nulla pare muoversi. Per parte sua il Ministero dell'Economia ha fatto sapere che procederà ad un'inchiesta, entro i limiti della sua autorità. Quanta fiducia si possa riporre in un’istituzione dell’occupazione israeliana

Fonte: +972

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