[Padova] 18/12 Bangladesh. La violenza del capitale, la forza delle lotte

Mercoledì 18 Dicembre - ore 20:45
Sala sotto l'orologio - Piazza dei Signori - Padova


Abbiamo sentito tutti parlare del crollo di un grande edificio in Bangladesh ad aprile di quest'anno. Lo abbiamo saputo perché la catastrofe è stata così macroscopica da non poter evitare che la notizia si diffondesse in tutto il mondo. Dentro a quel palazzone di otto piani, costruito come edificio abitabile, invece di esserci appartamenti, c'erano cinque grosse fabbriche tessili. Nonostante i segni di cedimento che la struttura aveva riportato nelle settimane antecedenti alla tragedia, gli operai che ci lavoravano hanno dovuto continuare ad entrarvi, a vivere le loro giornate da sfruttati pagati con i salari più bassi del mondo1; fino a che, durante una di queste giornate in cui erano chini sulle macchine, le crepe sui muri si sono squarciate, e gli otto piani e i pesanti macchinari e i muri stessi e tutto il resto hanno squarciato a loro volta i loro corpi. 1129 corpi, 1129 persone, uccise durante il lavoro, poiché erano al lavoro. In un luogo che fin da subito si sapeva essere inadeguato, pericoloso, e che si è rivelato infatti essere letale. 1129 è una cifra che fa scalpore, tutti in una volta così tanti fa scalpore. Ma la cronaca di tutti i giorni dimostra che stiamo parlando di un qualcosa che non riguarda un caso particolare, una strana situazione imprevedibile: sempre in Bangladesh, quello di aprile non è stato né il primo né l'ultimo evento di questo genere; e qui in Italia, dalla Tyssenkrupp agli incendi dei laboratori a Prato o a Salerno qualche anno fa (ricordando solo i casi che hanno fatto più notizia), si susseguono quasi giornalmente incidenti sul lavoro, vere e proprie stragi legate alla mancanza di sicurezza e di ambienti lavorativi sani. Per dare l'idea di quanto tutto ciò stia “a casa nostra”, nel sano e civile Veneto, si veda anche questo ultimissimo caso.

Questo qualcosa di cui stiamo parlando riguarda tutti i lavoratori del mondo. Li riguarda nella misura in cui la loro vita dipende dal loro lavoro, dal loro essere lavoratori, e quindi sono costretti a mettersi a disposizione dei padroni in fabbrica o in ufficio o quant'altro, non solo perché senza un salario in questo bel mondo/pianeta si deve morire, ma anche perché se il tempo in cui il proprio corpo è costretto a stare lì dove si diviene mezzo di produzione (ossia si diviene forza-lavoro) diventa la fetta maggiore di tutto il tempo che in una vita si ha, allora tutto ciò che incide sui corpi vivi al lavoro diventa fattore di qualità di vita, e questa è un'equazione valida a tutte le latitudini e longitudini di questo sistema globalizzato. “Globalizzazione” è un termine che designa lo sviluppo di un sistema di produzione e di scambio di mercato che nonostante le distanze unisce noi al Bangladesh, che nonostante le differenze ci mette tutti nella stessa barca. Le “nostre” aziende, di proprietà dei nostri rampanti imprenditori come Benetton, ecc., si sono scatenate “delocalizzando” selvaggiamente la produzione, o sarebbe meglio dire localizzandola, come sempre, dove più gli conveniva. Quando può, il capitale va, e si porta dietro lo sfruttamento della forza lavoro.

Per questo l'iniziativa a cui vi invitiamo si intitola “la violenza del capitale, la forza delle lotte”. Per sottolineare che non possiamo pensare che ciò che è avvenuto in Bangladesh e avviene in tutti quei luoghi lontani lontani, a cui magari pensiamo di essere uniti solo come consumatori delle merci prodotte, non ci riguardi. Ci riguarda e ci interroga, non solo perché, come abbiamo scritto nella copertina dell'iniziativa di mercoledì, “quella originaria del Bangladesh costituisce una delle popolazioni immigrate più presenti in Italia”, non solo perché “l'imprenditoria veneta che delocalizza nel Sud del mondo è direttamente responsabile di quanto accaduto”, non solo perché “i vestiti che indossiamo quotidianamente provengono dal lavoro di chi rischia la vita ogni giorno in edifici come il Rana Plaza o nei laboratori di casa nostra”. Ci riguarda perché pensare che sia naturale che qualcuno venga sfruttato fino all'osso significa accettare che questo accada a noi stessi. Con forme sicuramente meno impressionanti, ma altrettanto vergognose e negatrici della dignità di esseri umani.

Ora, dopo i disastri dovuti allo sfruttamento delle grandi multinazionali del tessile, si parla di sicurezza, e quelle stesse grandi multinazionali, che da anni e anni si sono insediate in Bangladesh2, nemmeno si mettono a recitare il mea culpa: fanno passare tutto come una situazione di fatto da loro non voluta e da loro non causata, e solo ora in tutta risposta a questo polverone che le chiama in causa di fronte all' “opinione pubblica”, si impegnano a garantire condizioni lavorative meno pericolose3. La loro immagine deve essere soltanto quella di benefattrici. Adesso, fioccano stime su quanto costerebbe in più un capo di abbigliamento per permettere alle imprese di mettere in sicurezza gli operai al lavoro4. Anche le associazioni per i diritti dei lavoratori si profondono in studi e analisi orientati a tale fine: secondo quella statunitense Worker’s rights consortium, la spesa per rendere gli stabilimenti in Bangladesh più sicuri (cioè con uscite di sicurezza e antincendio, luci di emergenza, impianti elettrici a norma) sarebbe di tre miliardi di dollari. Cioè 8 centesimi per ogni capo d’abbigliamento prodotto. 
Questo è il gioco con cui pretendono di prenderci in giro: ancora una volta, la soluzione mira a nascondere le condizioni oggettive che uniscono lavoratrici e lavoratori oltre i confini nazionali, creando una falsa solidarietà tra i consumatori dei “paesi ricchi” ed i lavoratori dei “paesi poveri”, in cui i primi si dovrebbero far carico di alleviare lo sfruttamento dei secondi pagando i prodotti un po' di più per salvarsi la coscienza.5

Ma perché mai pensare ad aumentare il prezzo del prodotto finale per mettere in sicurezza gli impianti e i luoghi di lavoro? La percentuale del prezzo finale che va all'operaio in busta paga è infinitesimale, e quanto costa all'azienda un lavoratore, comprendendo contributi e versamenti vari, è irrisorio. Questo escamotage è pensato perché il profitto non venga nemmeno messo in discussione!
La verità è in realtà semplice: il carnefice non ha interesse a migliorare le condizioni delle sue vittime. Se il suo scopo necessario è il maggiore profitto possibile, non si fermerà di fronte a nessuna considerazione “etica” o “umanitaria”. Alla sua violenza si può, e si deve, solo contrapporre “la forza delle lotte”.
Questo gli operai meno pagati del mondo (anzi, le operaie meno pagate del mondo) l'hanno capito. A settembre di quest'anno, una nuova ondata di proteste ha portato in piazza più di 200.000 lavoratrici e lavoratori. La loro rivendicazione non verte sulla sicurezza, ma sul vero perno su cui si misura lo scontro tra le due forze contrapposte di capitale e lavoro: il salario. In Bangladesh lo stipendio minimo mensile è di 38 dollari americani L'ultimo aumento era stato accordato nel 2010, dopo un mese di proteste. Di recente i proprietari avevano offerto un aumento del 20%, ma gli operai hanno rifiutato perché "disumano e umiliante". Il governo alla fine di settembre scorso ha accettato, dopo scioperi e scontri violentissimi tra lavoratori e polizia, di chiedere alle multinazionali di aumentare i salari mensili da 30 a 49 euro. Tanto per sottolineare la cosa, questi soldi mensili non sono neanche il prezzo, sui mercati occidentali, di un solo capo di abbigliamento che gli operai del Paese confezionano6. Il sindacalista portavoce delle proteste ha minacciato di continuare scioperi e altre forme di lotta fino a quando gli aumenti non saranno accordati: "Cento dollari è il minimo richiesto. Un operaio ha bisogno di molto più per una vita decente".

Loro continuano a protestare chiedendo più salario. In tutta risposta la polizia li ferisce e uccide7. Anche in questo si estrinseca la violenza del capitale, che viene servito umilmente dall'apparato statale, che anziché proteggere e aiutare i lavoratori, difende le multinazionale sfruttatrici. Ma questa storia la conosciamo. Ogni lotta si scontra con la repressione, lì come qui in Italia, fuori dai cancelli delle fabbriche in sciopero, in piazza durante le manifestazioni. Per questo portiamo avanti la solidarietà internazionale verso i lavoratori del Bangladesh, riconoscendo nella loro lotta quella di tutti coloro che vengono schiacciati, alcuni da enormi palazzoni dove il loro stesso sfruttamento è ai massimi livelli, ma tutti dalla insostenibilità di un sistema economico produttivo che si regge sulla violenza esercitata su un'infinita schiera di vite.

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note
1 Secondo la Banca mondiale, nel 2010 il Bangladesh è stato il paese in cui gli operai guadagnavano di meno al mondo. Lo stipendio medio di un operaio bangladese equivale a meno di 30 euro al mese. internazionale.it
2 I salari bassi e gli accordi commerciali con i paesi occidentali hanno reso il Bangladesh il secondo più grande esportatore di capi d’abbigliamento al mondo dopo la Cina. internazionale.it
3 Alcune aziende europee, tra cui H&M, Benetton e Inditex (proprietario di Zara), hanno firmato un accordo per garantire condizioni di lavoro migliori nelle fabbriche che producono per loro. L’accordo prevede che le aziende s’impegnino a far compiere ispezioni indipendenti sulla sicurezza e a rendere pubblici i risultati, a coprire i costi per eventuali messe a norma, a non impegnarsi con fornitori che non rispettino degli standard prestabiliti e a coinvolgere lavoratori e sindacati nel miglioramento delle condizioni di lavoro. internazionale.it
4 internazionale.it
5 Per la prima volta pare infatti riuscotere successo l'idea di alzare il prezzo dei capi di abbigliamento. internazionale.it
6 contropiano.org
7 euronews.com

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per approfondire
- Così lontani, così vicini (corrieredellemigrazioni.it)
- Il cattivo esempio (corrieredellemigrazioni.it)
- Una nazione all'estero (corrieredellemigrazioni.it)
- Tragedie operaie, ovvero sette cinesi morti nel Prato di casa (corrieredellemigrazioni.it)

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