La chef, la boss, Eataly e il made in Italy 2.0


Chi scrive lo ammette: segue tutti i reality televisivi che hanno come concept la ristorazione. Ultimamente la tv ne abbonda, sia in chiaro che sulle piattaforme private.

Masterchef, Hell's Kitchen, Kitchen Nightmare e poi pasticceria, gente che cucina con 1 euro, la Parodi, tutto nelle varie versioni americane, italiane, spagnole, australiane.
Forse è la curiosità di vedere come viene rappresentato quel mondo in cui alcuni di noi siamo immersi per lavoro, tra orari assurdi, paghe bassissime, condizioni di lavoro spesso al limite della decenza, padroni e padroncini della peggior specie.

Ma in questo caso, seppur sarebbe interessante smontare pezzo per pezzo l'immagine stereotipata proposta da questi show televisivi, della passione, la professionalità e l'inventiva che vincono su tutto, in cui viene rappresentata l'infinitesima parte della ristorazione mondiale, quella in cui le cucine brillano e i cuochi passano il tempo a decorare piatti con 2-3 petali di rosa (e quando non è così è perché "non si punta alla qualità"), ci interessa focalizzare l'attenzione su come imprenditoria, immagine, proiezione politica e economica del paese e mass-media viaggino a braccetto.

Su clashcityworkers.org abbiamo trattato abbondantemente la vicenda Eataly, in particolare dando spazio all'inchiesta che gli stessi lavoratori dello store fiorentino hanno prodotto per denunciare le condizioni lavorative e contrattuali alle quali sono sottoposti e motivando quindi il primo sciopero nella catena di ristoranti di Oscar Farinetti (in calce tutti gli articoli sull'argomento).

Ma com’è presentato Eataly e il suo padrone Oscar Farinetti dai media?

Oscar Farinetti è un’anticipazione dell'uomo del nuovo capitalismo made in Italy. Colui che ce la fa. Partendo dalle ricchezze della nostra terra propone un modello di ristorazione che si regge esclusivamente sulla presentazione e presunzione del “marchio di qualità”. Eataly è una grande "famiglia", fatta da gente seria, che "lavora" e non da parassiti, che il patron pagherebbe un sacco di soldi, se non fosse per la burocrazia che non glielo permette e quindi si attesta a un massimo di 1000 €. Renzi, l'attuale presidente del Consiglio, è come lui. È l'uomo nuovo, quello che come lui vuole solo valorizzare le qualità intrinseche del Belpaese. E allora: champagne!

Il messaggio che Farinetti incorpora è potente e va oltre la sua azienda e allora il nuovo capitalismo "made in Eataly" sbarca sugli schermi televisivi. A Masterchef Italia Oscar troneggia nell'Università privata di Scienze Gastronomiche fondata nel 2004 da Slow Food (slowfood.it - slowfood.com), come giudice di una gara: questo panciuto simpaticone che elogia i prodotti genuini della filiera che ovviamente trova spazio tra gli scaffali dei suoi store e nei piatti serviti nei ristoranti della catena.

Ma il caso più eclatante è "La chef e la boss", format televisivo che mischia la buona imprenditoria, le self-made women, la fatica per raggiungere gli obbiettivi, lo splendore del nuovo store Eataly Smeraldo di Milano, la retorica del merito.

Tutto il programma è imperniato sulla vicenda di due imprenditrici "toste" della ristorazione, Viviana Varese e Sandra Ciciriello che, "nonostante donne" (che nel mondo della ristorazione, viene insegnato, non sono mai in posti di comando, soprattutto in cucina, a causa della sua organizzazione intrinsecamente maschilista: qui si dovrebbe aprire un capitolo a parte), riescono tra mille peripezie a inaugurare e far funzionare ad alti livelli il ristorante stellato Alice gourmet, proprio nella galleria Eataly Smeraldo di Milano, il cui ingresso splendente viene pompato a intervalli regolari di 5 minuti durante una puntata che ne dura circa 50.


All'interno del ristorante le due povere imprenditrici, la chef e la direttrice, torchiano se stesse ma soprattutto i dipendenti perché solo così si raggiungono obbiettivi importanti, per far sì che esca fuori tutto il loro "valore" e, se a suon di notti insonni raggiungono gli obbiettivi, forse saranno premiati. Senza mezzi termini si dichiara che chi lavora è per la maggior parte stagista, apprendista, "extra", che prima di avere un posto di lavoro deve dimostrare di meritarlo, anzi, di meritarlo più degli altri…

Non appaiono mai tutte le figure operaie che reggono un ristorante (d'altronde non sarebbe cool far vedere come si rompono il culo lavapiatti, runner, ecc): esso è per magia sempre veloce e splendente, nel suo arredamento multi milionario e ovviamente è anche ethically e politically correct.

Il velo ideologico ci mostra una cruda realtà produttiva travestita con i panni del nuovo, pulito e vincente (ricordate la propaganda FIAT?). Ma il velo è sottile e allora per squarciarlo bisogna capovolgere le premesse.

Come i lavoratori stessi di Eataly ci hanno insegnato, ma basterebbe anche far riferimento a locali o ristoranti di pochi dipendenti, la cosiddetta "gavetta" propagandata come momento catartico nella vita di un lavoratore prima di sbocciare e affermarsi ad alti livelli, è in realtà la sostanza di attività di questo tipo. La struttura della forza lavoro, soprattutto in un momento in cui la disoccupazione è così alta, ma da sempre nella ristorazione, si fonda su un elevato tasso di ricattabilità e un’estrema flessibilità in entrata e in uscita che, tra l'altro, rende al limite stressante, un lavoro che comunque non si svolge di solito in condizioni ottimali: alto rischio infortuni, necessaria lucidità a ritmi incalzanti, richiesta di standard, sollecitazioni continue, ciclicità del settore, personale sempre carente rispetto al necessario, stanchezza, turni massacranti, orari inaccettabili (cose che si accompagnano ad un uso purtroppo frequente di sostanze stupefacenti per stimolare il livello di attenzione e lucidità).

Inoltre l'organizzazione del lavoro dentro Eataly riduce al minimo gli spazi di manovra di chi lavora, talvolta anche, al limite, da un punto di vista della propensione individuale e, parcellizzando al massimo le mansioni, riduce in sostanza la questione del merito ad una fedeltà estrema alla "famiglia", ovvero all'azienda stessa, la quale a sua volta innesca una concorrenza spietata tra gli stessi lavoratori. Tutto ciò traspare in maniera netta nel programma "La chef e la boss" ma viene camuffato da grande rispetto e ammirazione per il capo, mentre la competizione interna viene fatta passare per uno stimolo a migliorarsi, laddove a migliorarsi sono esclusivamente i profitti aziendali.



Insomma, il made in Italy 2.0 è lo specchio dell'Italia che provano ad imporci a ritmo di leggi delega e auspicata dai padroni non solo italiani, ma con i glitter ad abbellire il tutto: stagisti, lavoro duro senza sosta, nessuna garanzia, massima flessibilità, impossibilità di organizzarsi per far valere le proprie ragioni se non su un piano individuale e spesso perdente. Chi si spacca il culo ce la fa, troppa burocrazia per chi investe, massima fedeltà al padrone di turno.

Le due imprenditrici sono lo specchio perfetto del patron di Eataly: gente che lavora, signori! Mica chiacchiere. Le vedi lì, sempre stanche, distrutte nel portare a compimento la propria “missione”. E qua una domanda sorge spontanea: ma con 300 coperti a sera quanti soldi si mettono in tasca? E poi: ma avete idea di quanta gente che conoscete ha le tasche per sedersi al tavolo di quel ristorante?


Questa è l'Italia del futuro? Tanto splendore a coprire montagne di merda. Ma noi sappiamo che è dal letame che nascono i fiori.

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