[Bangladesh] Crolla complesso di fabbriche: è strage. Più di 300 morti e scoppia la rabbia. Ma a noi che ce ne frega?

Ci risiamo. Non è la prima e purtroppo non sarà l’ultima tragedia a funestare la vita di migliaia e migliaia di lavoratrici e lavoratori del Bangladesh. È inutile rincorrere gli appelli, le promesse di punizione per i responsabili, farsi commuovere dalle lacrime di coccodrillo delle autorità. Non faranno niente. Come sempre.

Sono già più di 300 i morti accertati sotto le macerie del Rana Plaza, uno dei tanti palazzi che, a Savar, zona industriale nella periferia di Dacca, capitale del Bangladesh, contiene stipati migliaia di operai ed operaie. L’industria tessile nel paese è florida. Per i padroni, of course. È uno dei motori delle esportazioni: il 60% dei beni finisce in Europa, il 23% negli U.S.A., il 5% in Canada.

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Si produce a costi bassi: la manodopera, circa 4 milioni di operai, costa mediamente 28€ al mese e le autorità chiudono gli occhi dinanzi alle palesi violazioni delle più basilari normative di sicurezza sui posti di lavoro. Così può capitare che in una fabbrica divampi un incendio e che le operaie rimangano intrappolate perché il proprietario ha pensato di sbarrare le uscite di sicurezza. Oppure, come nel caso in questione, un edificio, di proprietà di Sohel Rana, politico locale membro del partito di governo e ora accusato di utilizzare la sua influenza per sfuggire alle regole inerenti la costruzione dello stabile, avvenuta sei anni fa, può accartocciarsi su sé stesso e provocare la morte di centinaia di persone, perché i responsabili se n’erano infischiati di ascoltare le richieste dei lavoratori che rivendicavano la messa a norma del palazzo. Anzi, pare avessero addirittura denunciato sinistri scricchiolii e crepe nella struttura portante (“Abbiamo chiesto ai proprietari delle fabbriche tessili di tenerle chiuse”, riferisce Mohammad Atiqul Isla, presidente della Bangladesh Garment Manufacturers and Exporters Association - BGMEA) e che fossero entrati a lavorare solo dietro la minaccia di licenziamento (sebbene Sheikh Hasina, il primo ministro, abbia inizialmente dichiarato che “erano tornati indietro per prendere le loro cose” ). Solo pochi giorni dopo, mercoledì, avviene la strage.

Da noi queste cose non succedono. Da noi lo sviluppo ha portato civiltà. Da noi la normativa, più o meno, si rispetta. Da noi nessun capitalista ha così in poco conto la vita dei ‘suoi’ lavoratori. Da noi…

Da noi succede che – era il maggio 2012, non un secolo fa! – i padroni costringano i lavoratori a recarsi a lavoro nelle fabbriche situate nel territorio emiliano da poco colpito dal sisma, malgrado il pericolo ancora incombente. Da noi succede che capannoni di recente costruzione crollino come fossero fatti di paglia, portando con sé vite umane. E poi ‘noi’ arriviamo anche in Bangladesh. Per chi producono infatti le migliaia di fabbriche tessili? Quelle presenti nell’edificio crollato lavorano in appalto per colossi occidentali, come il britannico Primark o lo spagnolo Mango. Altri marchi, tra cui lo statunitense Wal Mart, il francese Carrefour e l’italiano Benetton hanno fatto sapere di aver avviato indagini per verificare se nelle catene di infiniti appalti e sub-appalti siano coinvolti anche loro.

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Il Bangladesh non ci ricorda di un passato che ormai è alle nostre spalle; è il futuro che si materializza e prende forma. Le riforma del mercato del lavoro, le nuove norme sulla sicurezza ci avvicinano a quei mondi cui troppo a lungo abbiamo guardato con distacco, con uno sguardo che difficilmente andava oltre la carità e la pietà di ispirazione cristiana.

Nulla è scritto, certo. Dipende da noi, dalle nostre lotte e dalla nostra forza. Non è il momento del pianto. È quello della rabbia. Come quella che si è riversata nelle strade di Dacca stamattina (venerdì 26 aprile): migliaia di persone, tra cui tantissimi lavoratori delle industri tessili, sono scese in strada invocando la pena di morte per i responsabili della strage. Armati, secondo quanto si apprende dalla stampa, di ‘spranghe e bastoni’, hanno assaltato le fabbriche, incendiandone alcune e costringendole alla chiusura. Hanno dato fuoco a negozi e bancarelle, alle auto in sosta (circa un centinaio). Hanno improvvisato barricate mettendo pneumatici in fiamme lungo le carreggiate. Hanno bloccato un’autostrada. La polizia ha risposto invitando alla calma (!) e lanciando lacrimogeni.
La rivolta non si è fermata alla sola zona della strage. È divampata anche in altre località nei dintorni di Dacca. La rivolta però, per quanto estesa e radicale, non basta. Quella rabbia va organizzata. Deve andare nella direzione di mettere in piedi una prospettiva di costruzione di un domani nel quale non si debba tornare a lavorare in condizioni sostanzialmente uguali, tutt’al più diverse alla facciata. La sfida chiama in causa tutte e tutti noi, non importa a che latitudine ci si trovi.

Fonti
Corriere della Sera
Contropiano
The Guardian
Video delle crepe nell’edificio prima del crollo

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