Le lacrime di Confindustria (e il sudore nostro)

Forse qualcuno si ricorda la boutade di quest’autunno del presidente di Confindustria Squinzi, secondo il quale le richieste dei sindacati alla vigilia del rinnovo dei contratti collettivi nazionali erano inaccettabili, dato che chiedevano aumenti delle retribuzioni “insostenibili” e addirittura “fuori dalla realtà”. Un attacco frontale alla contrattazione nazionale, dato che in realtà i nostri timidi sindacati chiedevano i soliti minimi aumenti salariali che si prevedono a ogni rinnovo dei CCNL, appena sufficienti a star dietro all’aumento del costo della vita, dei servizi, a quello che tutti noi chiamiamo “arrivare a fine mese”.

Sappiamo poi com’è andata a finire: i sindacati confederali hanno facilmente ceduto alle richieste degli imprenditori in quasi tutti i casi, e quest’ultimi sono riusciti addirittura a ottenere soldi indietro dai lavoratori del settore della chimica e sono in procinto di fare altrettanto con i metalmeccanici.
Dietro le considerazioni di Squinzi c’era una famigerata nota del centro studi di confindustria in cui si sosteneva che “La quota del valore aggiunto che va al lavoro è ai massimi storici”. Tradotto: della quella parte della ricchezza prodotta in un anno nel paese, che finisce in tasca ai lavoratori è alta come mai lo è stata prima. Potrà sembrare molto strano a chi abbia la sfortuna di lavorare in questo paese, ma secondo confindustria al lavoro dipendente va una quota di PIL che supera “il picco di metà anni Settanta, quando il sindacato dei lavoratori era all’apice del potere rivendicativo”. Per questo i sindacati dovrebbero smettere con le loro anacronistiche pretese!

A noi i conti non tornavano e allora ci siamo messi a rivedere un po’ di numeri (e a vedere tra di essi), aiutando nei calcoli la professoressa di economia Antonella Stirati, che si è spesso occupata di distribuzione “funzionale” del reddito (cioè la quota di reddito che spetta ai diversi “fattori” della produzione: capitale e lavoro, che diventano profitti e salari) e che è tornata sull’argomento rispondendo a Confindustria. Beh, quello che ne esce è un quadro molto diverso da quello dipinto dall’associazione datoriale e purtroppo conforme non solo all’esperienza comune di tanti lavoratori, ma anche alla arcinota crescita delle diseguaglianze a cui abbiamo assistito negli ultimi trent’anni: si rivelano, infatti, tre decenni di abbassamento della quota dei salari sul PIL. Un dato che poi andrebbe probabilmente ulteriormente corretto al ribasso visto che la quota del lavoro include anche i salari dei manager che nello stesso periodo sono aumentati, accaparrandosi percentuali sempre più alte di ricchezza.

Da dove spuntino i dati di confindustria è poi un mistero e rimandiamo all’articolo della Stirati pubblicato su Economia e Politica per le note più tecniche. Quello che è certo è quello che pretendono i padroni: tornare a guadagnare abbastanza perché siano stimolati a fare gli investimenti di cui “il paese ha bisogno”, ottenendo le stesse condizioni dei loro equivalenti degli altri paesi “concorrenti”, che a detta loro sanno sfruttare maggiormente i propri dipendenti. Secondo Confindustria, infatti, “l’andamento delle quote distributive in Italia risulta in controtendenza rispetto all’Eurozona e, in particolare, ad alcuni grandi paesi competitor”.
E quindi via con le solite richieste: dopo aver strappato la possibilità di licenziare quando gli pare con il Jobs Act, ora vogliono un “sistema di istruzione maggiormente integrato col sistema produttivo”, cioè manodopera gratis che gli viene direttamente dalle scuole, come prevede l’alternanza scuola-lavoro. E poi una “dinamica salariale correlata a quella della produttività”, cioè lo svuotamento della contrattazione nazionale a cui stiamo tristemente assistendo. E infine -perché no?- “rimuovere le restrizioni alla concorrenza nei servizi” che non significa altro che privatizzazioni.

Insomma ai padroni non basta veramente mai. E chiaramente le loro pretese si ammantano della solita retorica sulla “crescita del sistema paese”, che come sempre è crescita innanzitutto dei loro profitti, alle cui sorti saremmo noi tutti subordinati da bravi lavoratori dipendenti. Ma con “l’uscita dalla crisi” in realtà tutto questo c’entra poco. O meglio c’entra con l’uscita dalla crisi per loro: come si può vedere dai grafici dell’articolo, effettivamente la quota dei salari sul PIL è aumentata molto negli ultimi anni della crisi. Cioè, i profitti sono calati. Attenzione: questo non perché i lavoratori abbiano guadagnato di più, anzi. Come si legge nel rapporto annuale dell’ISTAT 2015 sulla situazione del paese (pagine 155-158), dal 2007 al 2014 le retribuzioni reali sono calate del -1,5% in agricoltura e del -4,2% nei servizi. Se nella manifattura sono invece cresciute ben del +8,4%, questo secondo l’ISTAT è perché “giocano un ruolo preponderante la maggiore contrazione delle posizioni lavorative a qualifiche più basse e anzianità minore”, cioè il fatto che con la crisi sono stati licenziati principalmente i lavoratori giovani e/o scarsamente qualificati, facendo crescere artificiosamente la media delle retribuzioni.

Dicevamo quindi che i profitti sono calati e che questo non c’entra con le retribuzioni. C’entra innanzitutto col fatto che, se la crisi ha un immediato impatto negativo sui guadagni delle imprese, a queste non risulta ancora così facile licenziare istantaneamente i propri dipendenti e tagliare gli stipendi quanto vorrebbero, così da scaricare su di loro i costi della crisi; anche perché in alcuni casi dette imprese perderebbero della manodopera faticosamente formata. Così come il calo della produttività si può spiegare col fatto che la recessione dissuade le imprese a compiere quegli investimenti necessari ad aumentarla. E infatti, come rivelano le elaborazioni di Stefano Perri sui dati Eurostat-AMECO, dal 2007 al 2014 lo stock di capitale fisso lordo è diminuito mediamente del -3,93% l’anno, mentre quello netto è cresciuto di un misero +0,43%. Per questo il fatto che la quota dei salari sul PIL cresca durante le crisi, cioè sia “anticiclica”, non stupisce. Così come non deve stupire che di converso, quindi, calino i profitti.

I padroni vogliono però uscire dalla crisi - dalla loro crisi! - e tornare a fare bei guadagni. Dopo aver smesso di investire pretendono adesso un prezzo della manodopera adeguato al calo della produttività, cioè vogliono bassi salari e totale flessibilità da parte dei lavoratori. A costo, paradossalmente, di aggravarla, la crisi. Dopo anni di politiche di austerità e di una mai raggiunta “luce in fondo al tunnel”, dovremmo, infatti, ancora credere che tutto questo serva al bene comune? Ancora dovremmo dar credito alla retorica dei “sacrifici necessari”? Se è vero che nel capitalismo crescita significa sfruttamento, e più si sfrutta più si fanno profitti, è anche vero che la miseria che dilaga tra le masse restringe il mercato in cui realizzarli questi benedetti profitti. Si tratta di una delle tante vecchie e ben note contraddizioni di un sistema che non produce beni per soddisfare i bisogni delle persone, ma merci che gli permettano di valorizzarsi indefinitamente.

E allora queste richieste avanzate da Confindustria, fedelmente eseguite dal governo Renzi, non rappresentano altro che il tentativo dei padroni di guadagnare il più possibile da questa situazione, costi quello che costi ai lavoratori, al “paese” e ai concorrenti che non ce la faranno.
Esprimono anche la loro capacità di far valere le proprie priorità sull’agenda politica approfittando della confusione e dello scoraggiamento che regna tra le classi popolari, costrette dalla crisi a una concorrenza al ribasso che assume sempre più i tratti di una guerra tra poveri. È in questo modo che i padroni riescono a trasformare ogni loro fallimento in un nuovo ricatto che possa giustificare ulteriori sacrifici - i nostri - a loro esclusivissimo vantaggio. E’ una spirale perversa, ma anche piena di contraddizioni. E soprattutto contraria all’interesse di milioni di persone. È a queste ultime che ci dobbiamo rivolgere per interromperla.

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