Avremo ancora diritto allo sciopero?

Ci risiamo. Esattamente come l’anno scorso, i lavoratori degli scavi di Pompei sono sotto il fuoco incrociato del governo, degli addetti ai lavori e di tutti i benpensanti nostrani, perché rei di aver indetto un’assemblea sindacale per il 24 luglio. Su di loro cadrebbe dunque la colpa delle file di turisti all’ingresso.

Una situazione che Matteo Renzi non ha esitato a definire “scandalosa”, che ha fatto parlare il ministro della Cultura, Dario Franceschini, di “danno incalcolabile” e che ha fatto elevare al rango di semi-eroe il soprintendente di Pompei, Massimo Osanna, perché si è immediatamente prodigato per permettere l’apertura dei cancelli.

Secondo i primi articoli di giornale e le dichiarazioni dei protagonisti (non dei lavoratori e dei sindacati, si badi bene!), si sarebbe trattato di un’assemblea “a sorpresa” (così Fransceschini), “selvaggia”. Oggi arriva un documento pubblicato da Il Fatto Quotidiano a smentire questa prima colossale bugia. Le sigle sindacali avevano avvisato praticamente tutti dell’indizione di un’assemblea sindacale, così che nessuno può dire di non aver saputo. Anche perché c’è ad esempio la firma del soprintendente Osanna, proprio colui che aveva parlato dello “scempio” di quella che definiva “protesta a sorpresa”. Insomma, l’assemblea era stata indetta ed organizzata secondo tutti i crismi. Chi doveva essere informato sapeva. E allora perché si è creata questa situazione, perché lavoratori e sindacati sono stati messi alla gogna mediatica, dipinti quasi come nemici dell’Italia, quinta colonna di un nemico immaginario che vuole vanificare gli sforzi di governo ed istituzioni ed imbrattare l’immagine che il paese sta provando faticosamente a costruire?

Le reazioni del mondo politico, di chi oggi siede in Parlamento, ci possono forse dire qualcosa in proposito. All’indomani della assemblea, La Stampa di Torino riportava che da settembre ci possiamo aspettare un’accelerazione della discussione di alcune bozze che mirano ad una diversa regolamentazione del diritto allo sciopero. I due progetti di cui si parla, quello di Sacconi e quello di Ichino, nelle differenze, convergono almeno su un punto: è troppo facile oggi fare sciopero, il paese rischia di diventare ostaggio di una “dittatura delle minoranze” sindacali. La soluzione è presto trovata: rendere più complicato il processo per il quale uno sciopero può essere indetto, restringere la platea degli attori che possono indirne uno, costringere ad un lungo processo affinché lo sciopero possa essere approvato e poi proclamato. Insomma, si tratta di bozze di provvedimenti che, al di là degli aspetti specifici (soglie da raggiungere, cosiddetto sciopero virtuale, ecc.) – che potranno sempre essere modificati – mostrano con chiarezza la direzione intrapresa già da tempo da chi ci governa: il diritto allo sciopero va fortemente limitato e, comunque, quest’arma nelle mani dei lavoratori, va resa quanto più inoffensiva possibile.

Ripercorrendo la storia degli ultimi mesi, una serie di episodi sta lì a mostrare come stiano spianando il cammino. Dai latticini considerati “servizio pubblico essenziale” in seguito agli scioperi e ai picchetti dei facchini alla Granarolo alla precettazione degli autisti dell’ATAC di Roma o dell’ATM di Milano, questi ultimi colpevoli di voler protestare durante Expo, dai lavoratori degli , fino ad arrivare, per l’appunto ai lavoratori degli scavi di Pompei.

Per loro, infatti, siamo noi una parte importante dei problemi del paese. Siamo i “gufi” che minano la crescita, quelli che mettono i bastoni tra le ruote, quelli che danneggiano l’immagine internazionale dell’Italia. Che poi Pompei crolli letteralmente a pezzi, che le cooperative della logistica evadano il fisco e non rispettino i contratti di lavoro, che i manager, pubblici e privati, vengano pagati milioni per gestioni disastrose e fallimentari, che decine di autobus e treni siano fermi nei depositi perché non arrivano soldi per ripararli, sarà assolutamente secondario e, comunque, alla fine dei conti, sarà in qualche modo colpa nostra. Forse sì, forse hanno ragione. Una colpa l’abbiamo: non siamo ancora riusciti a mandarli via con un bel calcio nel culo.